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| “Passa, passa!” “No, tira!” “Dai, placcatelo!” Queste furono le grida concitate che le sue orecchie riuscirono a captare secondi prima del disastro: un botto sordo riverberò per la natica dell'Useda, che s'impennò e lanciò un ruggito spaventato, assordando gli astanti e facendo rintanare nei loro carapaci i granchi che stavano combattendo un incontro clandestino sopra un barile. Per Mithra furono tre secondi: un secondo stava controllando la mappa della città, quello successivo stava cadendo all'indietro e all'ultimo trovò i riflessi necessari per stringere le gambe attorno alla vita dell'animale. Brutta scelta. Pessima scelta. Peggio che andar di notte ricoperto di miele, diceva sempre Mabiri, uno dei pescatori più vecchi del villaggio. 'Uh-oh', pensò mentre dondolava dal dorso dell'Useda. “Uh-OOOHHH Tentò di replicare il sentimento a voce alta, ma lo scatto della bestia prese il commento e lo stirò in un urlo stridulo che la chimera seminava con la sua corsa scalmanata. Rovesciato, il mondo ballonzolava tanto violentemente e a velocità tanto vertiginosa che Mithra giurò di star sentendo il sangue che gli stava andando alla testa far schiuma: ondeggiava rumorosamente e sbatteva contro le pareti interne della calotta cranica, effervesceva, faceva fsss e poi via, sublimava nel nulla assieme ai neuroni ed alla voglia di vivere. E proprio quando l'intorpidimento sembrava aver avuto la meglio e le gambe stavano per cedere, colpì la nuca contro una cassa di legno che l'Useda aveva prontamente saltato: il contraccolpo lo fece ritornare in una posizione un pelo più comoda. Meno male, ma anche ahia. L'istinto riuscì a battere lo stordimento dato dalla botta e strinse le dita del ragazzo sulla candida criniera dell'animale, troppo impegnato a correre e berciare. Proprio quando sollevò lo sguardo, Mithra vide un muro giallo venirgli incontro, e un grido gli morì in gola, soffocato dalla paglia che lo accarezzava dolcemente; fuori dal covone, le minacce e le maledizioni lanciategli dal proprietario del carro che avevano appena attraversato si persero con lo sforzo combinato dell'effetto doppler, del panico rumoroso della folla e della tosse che scuoteva lo sterno del Vyakti. E le cose sembravano voler solo peggiorare: l'Useda calpestò tappeti e terracotte, ribaltò diverse bancarelle, le cui merci volarono per aria e tra le braccia di Mithra, che si prese travi, manici di scopa e un balaustro sul muso, e più di una persona avrebbe avuto bisogno di un buon cerusico, quel giorno. Non fosse stato un attimo concentrato sul provare a fermare quell'ammasso di muscoli e pelo, Mithra avrebbe trovato sardonicamente impagabile la faccia che un Ishqasi barbuto e più largo che alto, povero fesso che aveva avuto la grande pensata di fare il dritto e piazzarsi a muro, fece pochi secondi prima che la fiera lo catapultasse all'indietro con una testata: occhi strabuzzati, naso rintanato tra le sopracciglia da quant'era arricciato e denti talmente serrati che sembravano sul punto di spezzarsi. Il bue darà pure del cornuto all'asino, ma la scimmia non ha tempo per certe idiozie. Chiaramente soltanto lui poteva riucire nell'impresa: “Ascolta il pianto di Hamafeleh Enia Quliv- ti ordino di fermarti!”, provò ad intimare, mettendo su un vocione alterato che non avrebbe convinto un uovo a schiudersi, “Seguendo i passi di Rouinaria Enia Quiliv, ti invito a fermarti!” Riprovò, ma nulla. “La mia voce è la lancia di Eqero Daiko Quiliv: ti impongo di fermarti!” Picche. “Possa la mia parola diventare editto di Gematria Daiko Quiliv, ti costringo a fermarti!” No. “Che la luce di Nifela Itan Quiliv ti accechi, fermati!” Nu-uh. “Nihure ti faccia mille doni se ti fermi!” Ma ti pare? “Uhhh, Aqitsah Cara Quiliv... ti dipinga... ti martelli... ti... ti...”, incespicò in preda all'iperventilazione, prima di raccogliere ogni fibra del proprio io in un respiro profondo, imbrigliando la propria essenza e lasciandola andare di botto: “TI VUOI FERMARE, BRUTTA TESTA DI CACCA CHE NON SEI ALTRO?!” Macché. Il duetto strillante era ormai arrivato alla fine della zona mercantile e i pennoni e le vele delle navi svettavano contro il cielo. Pro: era arrivato a destinazione. Contro: l'Useda non sembrava intento anche solo a rallentare. “Fermati, diamine!”, ormai la voce di Mithra si era ridotta ad un mugolio piagnucolante ritmato dal battere dei pugni del ragazzo sul collo dell'Useda, “Fermati ho detto! Fermatifermatiferma-” Un tonfo fu seguito a ruota dallo sgusciare di qualcosa di appiccicaticcio attorno alla sua testa e sulle sue spalle, mentre un velo nero oscurava la sua vista. No, non un velo, un secchio. E dall'odore, sembrava essere un secchio pieno di pesce. Nei primi attimi di panico non se ne accorse, troppo preso a bestemmiare per l'improvvisa mancanza di luce: “Anir bastardo, mi tradisci anche tu!” Abbandonato perfino dal sole, capì che era arrivato il momento di dire basta- o meglio, di aprire la bocca e lasciare che un forte acuto vibrasse E l'Useda, gli vada reso atto, si fermò: piantò le robuste zampe tigrate sullo sterrato, inarcò la schiena e sollevò un polverone attorno a sé, arrestando la propria corsa scellerata- nel farlo, però, sbalzò Mithra di sella. Il cavaliere disarcionato sentì dapprima il vuoto dargli un pugno nello stomaco e strattonargli i capelli, poi il raggelante collare dell'inerzia tirarlo a gran velocità, cometa blu di disagio e male di vivere, la sua scia il grido ovattato provenire da dentro il secchio. Se gli fosse importato qualcosa, in quel momento, avrebbe potuto calcolare un viaggio di una quindicina di metri, a cui si aggiunsero un'altra quindicina passati a ruzzolare contro le mattonelle del porto, di cui gli ultimi cinque strisciati di faccia- o meglio, di secchio contro la pietra, con le ginocchia che a momenti sfrigolavano scintillanti per la frizione. Ma il cervello di Mithra, in quel momento, era troppo impegnato a registrare ogni urto e a dare la colpa ad un Quiliv diverso per ciascuno di essi. Ci vollero un paio di minuti prima che potesse anche solo pensare di concepire di rialzarsi: il tempo necessario a che il pianeta smettesse di cambiare in continuazione il proprio senso di rotazione e Mithra fosse di nuovo in grado di percepire il proprio corpo all'interno di uno spazio ben definito. Giunse, però, alla conclusione che fosse una pessima idea muoversi quando al minimo tentativo sentì le vertebre del collo scricchiolare minacciosamente e bruciare come se si fosse beccato un cactus sulla schiena, tra le tante cose su cui era andato a sbattere durante la precipitosa fuga della sua cavalcatura. Alla protesta si aggiunsero il resto della spina dorsale, diverse costole, il coccige, il gomito destro, entrambe le ginocchia e la caviglia destra, in un'orchestra di dolore diretta dal pulsare ritmico della testa, che aveva già dimenticato cosa fossero colori, suoni e qualsiasi odore non fosse quello di triglia tigrata. Rimase dunque lì, pesto, terga all'aria e faccia a terra, cullato dall'impercettibile ondeggiare del secchio. Un gruppetto di polli zampettò con fare circospetto attorno a quello che in quel momento avrebbe voluto essere un cadavere, e presero a picchettargli addosso coi loro becchi acuti. 'Odio tutto.' La vita, il suo villaggio di pazzi e malati, quella dannata bestia che aveva deciso di svegliarsi proprio mentre lui era ancora lì e non, non so, magari qualche secolo più in là, i Quiliv fedifraghi e il sole assenteista, quella città che gli dava il benvenuto prendendolo letteralmente a pesci in faccia, tutto. Ma più di tutto, odiava quella stramaledettissima scimmia.
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